IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale nei
 confronti di Capra Luciano, De Giorgis Alfonso e Antonioli  Giuseppe,
 imputati  dei  reati  di cui al decreto che dispone il giudizio sulla
 questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  513,  comma  2,
 c.p.p.,  nella  formulazione  risultante  dalle modifiche operate con
 l'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli  articoli
 3,  24,  25,  101,  112  Cost., sollevata dal p.m. all'udienza del 12
 febbraio 1998.
                               Premessa
   Il presente procedimento costituisce uno stralcio di una piu' ampia
 indagine riguardante la gestione dell'ufficio del registro  di  Arona
 da parte dell'allora direttore dott. Mattarella Salvatore, sulla base
 di denunce presentate da alcuni contribuenti.
   Esso,   in   particolare,  concerne  due  pratiche  intestate  alla
 Immobiliare Vevera s.a.s. di Capra Luciano    C.  relativa  all'Invim
 straordinaria  di cui al d.-l. 13 settembre 1991, convertito in legge
 n. 363/1991, che si assumono oggetto di un trattamento di  favore  ad
 opera  del  dirigente  dell'Ufficio pubblico, in cambio della dazione
 gratuita di un'autovettura Audi 100 da parte  dell'AutoArona  S.r.l.,
 il cui dominus era lo stesso Capra Luciano.
   Tale  trattamento  di  favore  sarebbe  consistito nell'omettere la
 notifica dell'avviso di accertamento del valore  immobiliare  redatto
 dall'U.T.E.   nel   termine   di  legge,  rendendo  cosi'  definitiva
 l'autoliquidazione   effettuata    dall'interessato,    di    importo
 notevolmente inferiore.
   Intimamente  connessa  a  tale  imputazione  e'  quella elevata nei
 confronti  dell'Antonioli,   legale   rappresentante   dell'AutoArona
 S.r.l.,  che  secondo l'accusa avrebbe posto in essere una pluralita'
 di condotte finalizzate a fare  apparire  come  regolare  vendita  la
 cessione  dell'autovettura in oggetto al Mattarella, ed a corroborare
 sotto tale profilo la versione difensiva dei coimputati.
   Nel corso dell'istruzione dibattimentale e' stato sentito, ai sensi
 dell'art. 210 c.p.p., il  coimputato  Mattarella  Salvatore,  il  cui
 esame era stato richiesto dal p.m. e che si e' avvalso della facolta'
 di non rispondere.
   Il   p.m.  ha  allora  chiesto  l'acquisizione  dei  verbali  delle
 dichiarazioni rese dal Mattarella (interrogatori innanzi al  p.m.  in
 data 13 maggio 1996, 21 maggio 1996, 17 giugno 1996, 30 ottobre 1996,
 interrogatorio  innanzi  al  g.i.p. in data 12 giugno 1996): a fronte
 del rifiuto di  tutte  le  altre  parti,  egli  ha  quindi  sollevato
 formalmente  l'eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art.
 513, comma 2, del c.p.p., nella sua nuova formulazione, per contrasto
 con gli articoli 2, 3, 24, 25,  101  e  112  della  Costituzione,  in
 relazione  alla  mancata  acquisizione dei verbali delle sopra citate
 dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato Mattarella.
                            Sulla rilevanza
   Dalla relazione introduttiva del p.m. e' emerso che  il  Mattarella
 fu  piu'  volte  sentito  anche  in  merito  ai  fatti oggi in esame,
 rendendo sia in ordine all'omessa notifica degli avvisi sia in ordine
 alla dazione della vettura  dichiarazioni  sulla  base  delle  quali,
 unitamente   ad  altri  elementi  ritenuti  di  riscontro,  e'  stato
 richiesto ed ottenuto il rinvio  a  giudizio  (anche)  degli  odierni
 imputati.
   Appare  pertanto  evidente la rilevanza nel presente processo della
 dedotta questione di legittimita'  costituzionale  in  rapporto  alle
 dichiarazioni  rese  nel  corso  delle indagini dal Mattarella, anche
 considerando che questi rappresenta il soggetto attivo del  reato  di
 corruzione  ascritto  agli odierni imputati Capra e De Giorgis, a sua
 volta presupposto di quello contestato all'Antonioli.
   Ed in effetti, al di  la'  del  valore  che  tali  mezzi  di  prova
 assumono  nella  prospettazione  dell'accusa, rimane indiscutibile la
 rilevanza  degli  stessi  ai  fini  dell'accertamento  dei  fatti   e
 l'impossibilita', allo stato degli atti, di ritenerne la superfluita'
 ex  artt.  190  e  495,  c.p.p.; in tale ottica si ritiene infatti di
 dover circoscrivere  la  valutazione  del  requisito  in  esame,  non
 potendosi  in  tale  fase processuale anticipare la valutazione degli
 elementi di prova gia' acquisiti o acquisendi secondo  una  sorta  di
 "prognosi  probatoria",  che appare in conflitto con la struttura del
 processo in quanto anticipatoria della decisione nel merito.
   Le  dichiarazioni  di  cui  il p.m. ha richiesto l'acquisizione, in
 applicazione dell'impugnata norma, non  possono  allo  stato  trovare
 ingresso   nel  dibattimento  unicamente  per  effetto  del  dissenso
 espresso dalla difesa.
                   Sulla non manifesta infondatezza
   Per quanto attiene alla valutazione di non  manifesta  infondatezza
 nei  termini  delineati  dal  p.m.,  vanno  condivise  e  ribadite le
 valutazioni  gia'  espresse  da  altri  giudici  remittenti,  ed   in
 particolare  dal  tribunale di Milano e da questo stesso Tribunale di
 Verbania, che hanno sollevato identica questione con ordinanze datate
 rispettivamente 24 ottobre 1997, 17 dicembre 1997 e 17 febbraio 1998.
    Espressamente richiamando in particolare le considerazioni di  cui
 all'ordinanza  del  tribunale  di  Verbania 17 febbraio 1998, ritiene
 infatti il Collegio che nella norma impugnata si appalesi un vizio di
 manifesta irragionevolezza rispetto  ai  principi  costituzionali  in
 materia  di  acquisizione e utilizzabilita' della prova, dalla stessa
 Corte  costituzionale  piu'  volte  ribaditi   e   sintetizzati   nel
 "principio  di  conservazione  della  prova".    Prima di esaminare i
 profili della manifesta illogicita'  della  norma  in  esame,  appare
 necessario  sgombrare il campo da alcune obiezioni mosse dalle difese
 Capra e De Giorgis, le quali hanno escluso dignita' costituzionale al
 principio di conservazione della prova, con cio'  sostenendo  la  non
 riferibilita'  ad  esso  di eventuali profili di illegittimita' delle
 norme ordinarie: la legittimita' dell'art. 513  c.p.p.,  nella  parte
 qui  in  esame, non potrebbe avere come parametro di valutazione tale
 principio, che non troverebbe riconoscimento in nessuna  norma  della
 Costituzione,  bensi'  i  valori  realmente  discendenti  dalla Carta
 fondamentale.  Di essi la norma impugnata sarebbe non solo pienamente
 rispettosa,  ma  anche  manifestazione  concreta,   con   particolare
 riguardo al principio del contraddittorio che troverebbe la sua fonte
 diretta   nel   diritto   di   difesa   sancito  dalI'art.  24  della
 Costituzione.    Altro,  e  connesso,  elemento  di  valutazione  che
 dovrebbe  portare  al rigetto dell'eccezione di incostituzionalita' -
 sempre  nell'ottica  difensiva  -  e'  quello  per  cui  il  presunto
 conflitto tra due contrapposti principi, quello del contraddittorio e
 quello   della   conservazione   della   prova,  sarebbe  in  realta'
 inesistente in quanto  il  secondo  non  troverebbe  alcuna  dignita'
 dogmatica,  non esistendo "prova" al di fuori di quella formatasi nel
 dibattimento.  A fronte di tali considerazioni, la censura  mossa  ad
 un intervento legislativo - chiaramente affermativo del principio del
 contraddittorio   -   attraverso   il  richiamo  al  principio  della
 conservazione della prova, si  risolverebbe  nell'imposizione  di  un
 criterio processuale contrastante con quello espressamente scelto dal
 legislatore  e  con  il  principio  costituzionale ad esso sotteso, e
 quindi in una sostanziale violazione del principio di  legalita'  che
 deve   informare  l'attivita'  giurisdizionale  ed  in  un  controllo
 "sostitutivo" della  produzione  legislativa.    Gli  assunti  devono
 ritenersi   infondati,   non  solo  alla  luce  della  giurisprudenza
 costituzionale - che rappresenta il diritto costituzionale vivente  e
 quindi l'ineliminabile punto di riferimento sia del legislatore nella
 fase  di produzione delle norme sia del giudice nella fase della loro
 interpretazione - ma anche della disciplina processuale vigente,  che
 pacificamente   non   interpreta  il  principio  del  contraddittorio
 nelI'unico  senso dell'oralita', come implicitamente ritengono invece
 le difese.   Lo schema  processuale  complessivamente  delineato  dal
 legislatore  si muove infatti su due fondamentali direttrici tra loro
 complementari:   quello della formazione contestuale  della  prova  e
 quello  dell'attribuzione  di  valenza  probatoria  ad atti formatisi
 prima del dibattimento (mediante il meccanismo della lettura).   Tale
 ultimo  meccanismo,  inoltre,  e' stato espressamente contemplato per
 tutti i casi in cui, per caratteristiche insite nell'atto stesso  (ad
 es.  gli  atti  irripetibili  o  le  rogatorie  internazionali di cui
 all'art. 431 c.p.p., o i documenti di cui agli  articoli  234  e  ss.
 c.p.p.)  o  per  fattori  sopravvenuti (ad es. le ipotesi di cui agli
 artt. 512, 512-bis  e  lo  stesso  513  nuova  formulazione  c.p.p.),
 risulti  impossibile  la  formazione  contestuale della prova.   Tale
 constatazione  evidenzia  due  corollari,  entrambi  rilevanti  nella
 presente sede: il primo e' che per lo stesso legislatore il principio
 del  contraddittorio  non  coincide  con quello dell'oralita' (id est
 della formazione contestuale della prova), che ne costituisce  invece
 solamente  una  possibile  modulazione;  l'altro  e' che i meccanismi
 previsti  dal  legislatore  per  l'acquisizione  della   "prova"   in
 dibattimento,   proprio   per  la  loro  evidente  complementarieta',
 manifestano  il  chiaro  intento  del  legislatore   di   raggiungere
 attraverso  le  regole  processuali il vero ed unico scopo, da sempre
 riconosciuto  come  principio  cardine  a   livello   costituzionale,
 dell'accertamento della verita'.
   Il  principio  del  contraddittorio invocato dalle difese non puo',
 dunque, essere identificato nel principio dell'oralita', non solo  in
 una attenta individuazione dei reali valori guida del processo penale
 vigente  (che escludono di ipotizzare un loro stravolgimento nel caso
 in cui - attraverso il controllo costituzionale - tale principio  sia
 messo  in  discussione)  ma  anche  e  ancor  prima  se  inteso  come
 espressione  del  diritto  di  difesa  tutelato  dall'art.  24  della
 Costituzione,  che  non  ha come sua unica manifestazione l'oralita',
 ben potendo esprimersi anche in altre forme egualmente rispettose  di
 tale valore e addirittura in un rito di natura inquisitoria.
   Deve  dunque  concludersi che la normativa ordinaria, nel campo che
 qui interessa, non puo' che essere vagliata con esclusivo riferimento
 al principio sopra richiamato  dell'accertamento  della  verita',  di
 cui,  come  piu'  volte esplicitato anche dal giudice delle leggi, il
 principio di conservazione della prova e' al contempo  espressione  e
 garanzia,  tanto piu' quando, come nel caso in esame, non ci si trovi
 di fronte alla contrapposizione di principi aventi anch'essi  diretto
 rilievo  costituzionale  - tale non essendo, come visto, il principio
 di oralita'.
   Passando dunque all'analisi dei lamentati  e  ritenuti  sussistenti
 profili  di  incostituzionalita,  si osserva: dato di partenza e' che
 l'art. 513, comma 2,  c.p.p.,  nella  sua  nuova  formulazione  viene
 pacificamente   ad  escludere  dal  novero  delle  prove  acquisibili
 mediante lettura (e quindi utilizzabili ex artt. 191 e  526,  c.p.p.)
 le  dichiarazioni  dei coindagati che si siano avvalsi della facolta'
 di non rispondere, con l'unica eccezione del meccanismo  di  consenso
 ivi previsto.
   Altro  dato fattualmente incontrovertibile e' che l'esercizio della
 predetta facolta' da parte di soggetti che nel corso  delle  indagini
 della   stessa   non   si   erano   avvalsi   determina  un  caso  di
 irripetibilita', oggettiva ed imprevedibile, dell'atto.
   Inevitabile  appare  dunque  il  richiamo a tutte le pronunce della
 Corte  costituzionale  che  in  relazione   ad   analoghi   casi   di
 irripetibilita'  hanno affermato la legittimita' dell'acquisizione ed
 utilizzazione delle prove formatesi in sede di indagini  preliminari,
 ancorandola al principio costituzionale della conservazione dei mezzi
 di prova.
   In particolare si richiamano:
     Sentenza  Corte  cost.  n. 254 del 1992, in cui la Corte osservo'
 che il principio guida dell'oralita'  deve  essere  contemperato  con
 l'esigenza  di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto
 acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile,
 rimarcando che gia' la legge delega ricomprendeva in  tale  categoria
 anche   l'indisponibilita'  dell'imputato  all'esame.    Sentenza  n.
 179/1994, relativa all'ipotesi, invero in tutto e per tutto analoga a
 quella che ci occupa, dell'esercizio della facolta' di astenersi  dal
 deporre,   riservata  daIl'art.  199  c.p.p.  ai  prossimi  congiunti
 dell'imputato, con cui la Corte ha confermato il proprio orientamento
 affermando "certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della  prova
 testimoniale  legittimamente  assunta  non  puo'  essere condizionata
 dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste,
 nel caso di un suo tardivo esercizio della  facolta'  di  astensione:
 non  esiste  nell'ordinamento  alcuna  disposizione che autorizzi una
 interpretazione del genere".   Nell'impostazione  del  Giudice  delle
 leggi,   dunque,   in   casi   consimili,   e   sebbene  in  presenza
 dell'esercizio di un diritto,  si  determina  una  "oggettiva  e  non
 prevedibile"  impossibilita'  di  ripetizione dell'atto dichiarativo.
 Le conclusioni a cui le citate  sentenze  sono  pervenute  (ossia  la
 lettura,   ex  artt.  512  e  513,  c.p.p.,  delle  dichiarazioni  in
 precedenza rese) si  pongono  in  linea  con  quello  che  dev'essere
 senz'altro   definito   un   caposaldo   della   elaborazione   della
 giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice  di
 procedura  penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il
 rispetto del principio  dell'oralita'  coll'esigenza  di  evitare  la
 perdita,  ai  fini  della  decisione,  di  quanto acquisito prima del
 dibattimento e che sia  irripetibile  in  tale  sede".    Del  resto,
 diversamente  opinando,  si  giungerebbe  alle  conclusioni difensive
 sopra disattese secondo cui l'oralita' si  atteggerebbe  a  principio
 fine  a se stesso, al quale verrebbe addirittura sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale,  che  consiste  nella  ricerca  della
 verita'  e  nella  pronuncia  di una giusta decisione (cfr. Sent.  n.
 255/92 Corte cost.: "il sistema accusatorio positivamente  instaurato
 ha  prescelto  la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale
 criterio  rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della  verita';  ma
 accanto  al  principio  dell'oralita'  e' presente, nel nuovo sistema
 processuale, il principio della non  dispersione  degli  elementi  di
 prova  non  compiutamente  (o  non  genuinamente)  acquisibili con il
 metodo orale...").
   Del  resto  lo  stesso  legislatore  ha  mostrato   di   pienamente
 condividere l'elementare principio della non dispersione dei mezzi di
 prova,  posto a base delle molte sentenze della Corte costituzionale,
 quando ha integrato il codice di rito prevedendo e rendendo possibile
 la lettura di atti formati nelle indagini preliminari, allorche'  per
 qualsivoglia  ragione l'atto non fosse ripetibile in dibattimento (v.
 art. 512-bis c.p.p.).
   La  nuova  formulazione  dell'art.  513,  comma 2, c.p.p. che, come
 sopra evidenziato, pone  uno  sbarramento  all'acquisizione  di  atti
 formati  in  fase  di indagini preliminari e successivamente divenuti
 irripetibili, introduce una evidente eccezione ai principi  enucleati
 dalla Corte e precedentemente fatti propri dal legislatore, ed impone
 pertanto   un'attenta   verifica  della  ratio  e  della  logica  che
 giustifichino la diversita'  di  trattamento  rispetto  alle  ipotesi
 consimili.
   Sicuramente  non  si  tratta della tutela del diritto di difesa del
 coindagato: l'acquisizione di  quanto  dallo  stesso  precedentemente
 dichiarato  non contravviene infatti al principio del nemo tenetur se
 detegere, che esplica i suoi effetti nel momento dell'esercizio della
 libera scelta di parlare o tacere ma non si estende certo alla libera
 disponibilita' del materiale gia' fornito al procedimento:  tanto che
 l'ultima  parola  in  merito  all'acquisizione  delle   dichiarazioni
 precedentemente  rese non spetta al dichiarante bensi' alle parti del
 processo a cui egli e' estraneo.    Del  resto,  nessuna  conseguenza
 deriva  al  coindagato dall'utilizzazione delle sue dichiarazioni nei
 confronti di terzi,  mentre  invece  nel  processo  che  lo  riguarda
 direttamente  le stesse sono comunque pienamente utilizzabili proprio
 ai sensi dell'art. 513, comma 1, c.p.p.: disciplina che  risulterebbe
 palesemente illogica se la ratio della norma in esame fosse la tutela
 del  coindagato.    Va  altresi' esclusa, quale ratio della norma, la
 tutela del diritto di difesa  dell'imputato.    A  tal  proposito  va
 osservato  che nella maggior parte dei casi l'esame del coindagato e'
 richiesto come prova d'accusa, e che pertanto il meccanismo  previsto
 dall'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  viene di fatto a "compensare" la
 mancata possibilita' di  controesaminare  il  dichiarante,  con  cio'
 adombrando,  limitatamente a tale ipotesi, l'imprescindibilita' della
 formazione contestuale della prova.  Tale principio,  tuttavia,  come
 gia'  evidenziato, non trova nessun diretto addentellato nella nostra
 Costituzione ed in particolare nell'art.  24  Cost.,  essendo  invece
 espressione  della  preferenza accordata dal legislatore ordinario al
 rito accusatorio ed al connesso principio di  oralita',  intesi  come
 strumento  piu' idoneo al raggiungimento dell'unico fine del processo
 penale, che e' e rimane l'accertamento della verita'.
   La strumentalita' del  principio  dell'oralita'  rispetto  al  fine
 della  ricerca  della  verita',  a  cui  e'  intimamente  connesso il
 principio della conservazione della  prova,  si  appalesa  del  resto
 evidente  in  tutte  quelle  altre  ipotesi  in  cui la necessita' di
 acquisire l'atto irripetibile sacrifica il controeame e rispetto alle
 quali la norma in oggetto, come  gia'  rilevato,  si  pone  in  netta
 antitesi  logica.  L'antitesi e' tanto piu' evidente considerando che
 lo stesso legislatore del nuovo art. 513  c.p.p.,  da  una  parte  ha
 ribadito  il  principio  della "conservazione della prova" prevedendo
 l'utilizzabilita' tout court delle  dichiarazioni  rese  in  fase  di
 indagini  preliminari  dal  coindagato  nei  casi  di cui al comma 2,
 secondo alinea e dall'altra lo ha disatteso prevedendo la  necessita'
 dell'accordo delle parti qualora il coindagato si presenti in udienza
 e  rifiuti di rispondere:  con cio' applicando discipline opposte pur
 in presenza di un unico dato di fatto  (mancata  realizzazione  della
 formazione   contestuale   della   prova).     Ulteriore  profilo  di
 irragionevolezza si ravvisa nel raffronto con la disciplina  prevista
 dagli  artt.  512 e 512-bis, c.p.p., riguardanti le dichiarazioni del
 testimone, rispetto alle quali nessun  diritto  al  controesame  puo'
 essere   invocato   per   impedirne   l'acquisizione   in   caso   di
 irripetibilita'.   La diversita'  di  disciplina  rispetto  a  quella
 prevista   per  il  testimone  non  puo'  del  resto  trovare  alcuna
 plausibile giustificazione nella diversa  posizione  processuale  del
 dichiarante  ex  art.  210  c.p.p., che si riverbera nel loro diverso
 grado di attendibilita': tale  ultimo  elemento  attiene  infatti  al
 momento  non  dell'acquisizione, ma della valutazione della prova, ed
 e' gia' stato risolto dal legislatore con l'attribuzione  di  diversa
 pregnanza probatoria alle due dichiarazioni.
   La  pur  sommaria  analisi sin qui condotta in ordine alla modifica
 dell'art. 513 c.p.p., se da un lato non consente di  individuare  una
 logica  e  ragionevole  eccezione  al  principio costituzionale della
 conservazione della prova, dall'altro e contestualmente  evidenzia  e
 mette a nudo il vero principio introdotto dalla riforma: quello della
 disponibilita' della prova in capo ad una parte processuale.
   Tale  potere  dispositivo,  tuttavia,  non  solo  non  trova  alcun
 riferimento nella Carta costituzionale, ma anzi si pone in  contrasto
 con  i principi del giusto processo, dell'obbligatorieta' dell'azione
 penale e  della  conseguente  indisponibilita'  della  res  iudicanda
 sanciti dagli artt.  101 e 112, Cost.
 Invero  la  Consulta  ha  piu'  volte avuto modo di precisare come il
 potere di decisione del giudice del  merito  della  causa  non  possa
 essere  vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere
 delle parti, ed alle scelte  di  carattere  processuale,  in  ipotesi
 anche immotivate, di costoro.
   E'  evidente,  infatti, come il precetto di cui all'art. 101, comma
 2,  della  Costituzione,  precluda  una  esasperata  ed  estremistica
 applicazione  del  principio  dispositivo  nel  processo  penale,  in
 ragione  dell'indisponibilita'  degli  interessi  pubblici  e   delle
 posizioni  soggettive  che  di  questo  costituiscono  l'oggetto:  la
 disponibilita'   della   prova   renderebbe   infatti    disponibile,
 indirettamente,  la  stessa  res  iudicanda.    Come gia' osservato e
 chiaramente affermato nella nota  sentenza  (sempre  appartenente  al
 genus  delle  interpretative  di  rigetto:  Corte  cost. n. 111/1993)
 relativa alla definizione del potere istruttorio suppletivo riservato
 al giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo  codice  di
 rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero,
 prescelto  come  metodo  di conosceza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico fra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale".   Se e' vero  che  un  pieno  ed
 arbitrario potere dispositivo della prova nel processo e' negato alle
 parti,  a  maggior  ragione ingiustificabile appare l'attribuzione al
 coindagato (estraneo al processo) della possibilita',  di  fatto,  di
 innescare   o   meno   il  presupposto  per  l'esercizio  del  potere
 dispositivo della  parte,  possibilita'  che  astrattamente  potrebbe
 anche dipendere non dall'espressione di un diritto del coindagato, ma
 dal  suo  mero arbitrio.  Il riconoscimento del potere dispositivo ad
 una parte processuale pone ulteriori dubbi di costituzionalita' sotto
 altri profili.
   Far  dipendere  l'acquisizione dell'atto irripetibile dal "consenso
 delle parti" pare infatti irrazionale nel caso in  cui  gli  imputati
 siano piu' di uno.
    Se  per  "consenso  delle  parti"  si  intende infatti - come pare
 preferibile - accordo tra tutti i soggetti  processuali,  laddove  vi
 fosse anche un unico dissenso all'acquisizione si potrebbe verificare
 una   ingiustificata   e   grave   lesione   del  diritto  di  difesa
 dell'imputato  che  abbia  invece  interesse  all'acquisizione  delle
 dichiarazioni del coindagato; se invece per "consenso delle parti" si
 fa  riferimento  solo  all'accordo  tra  p.m.  e  singolo imputato (a
 prescindere  dalle  determinazioni  degli  altri)   si   verrebbe   a
 legittimare    l'emanazione    di    sentenze    necessariamente   ed
 intrinsecamente contraddittorie rispetto all'accertamento del  fatto,
 che  verrebbe  a  diversamente  configurarsi  a seconda delle diverse
 posizioni processuali esaminate.
   Di conseguenza il processo verrebbe di fatto a perseguire non  piu'
 la   funzione   di   accertamento   della   verita',   ma  quella  di
 regolamentazione  delle   diverse   verita'   processuali,   con   le
 conseguenze piu' volte censurate dalla Corte costituzionale.